IL GIUDICE DI PACE

    Premesso  che il difensore di Marco Ganugi, imputato del reato di
cui  all'art. 73  d.P.R.  9  ottobre  1990  n. 309,  ha  richiesto la
sospensione del processo ai sensi dell'art. 5, secondo comma legge 12
giugno 2003, n. 134.

                            O s s e r v a

    L'art. 5,   legge   12   giugno   2003,  n. 134,  stabilisce  che
l'imputato,  o  il  suo  difensore  munito di procura speciale, ed il
pubblico ministero, nella prima udienza utile successiva alla data di
entrata  in vigore della legge, possano chiedere l'applicazione della
pena,  ai  sensi  dell'art.  444  c.p.p., come novellato dalla stessa
legge,   anche  nei  processi  penali  dei  quali  sia  in  corso  il
dibattimento  ed  anche  se sia decorso il termine previsto dall'art.
446,  comma  1,  c.p.p. La facolta' e' concessa anche quando sia gia'
stata presentata tale richiesta, ma vi sia stato il dissenso da parte
del  pubblico  ministero  o la richiesta sia stata rigettata da parte
del  giudice,  e  sempre  che la nuova richiesta non costituisca mera
riproposizione   della  precedente.  Su  richiesta  dell'imputato  il
dibattimento e' sospeso per un periodo non inferiore a quarantacinque
giorni  per  valutare  l'opportunita'  della richiesta e durante tale
periodo  sono  sospesi  i  termini  di  prescrizione  e  di  custodia
cautelare.  La richiesta di sospensione - ad avviso di questo giudice
e  della  maggioranza delle pronunce sulla questione finora note, fra
le  quali  numerose di questo tribunale - puo' essere, come in questo
caso,  avanzata  dal difensore del contumace o dell'assente, in forza
della  regola  secondo  la  quale  tali  categorie  di  imputati sono
rapppresentati  dal difensore, oggi allocata negli artt. 420-quater e
420-quinquies   c.p.p.   e   richiamata,   quanto   al  dibattimento,
dall'art. 484  c.p.p.: invero, nell'art. 5, il primo comma riserva la
possibilita'  di  richiedere il patteggiamento all'imputato, o al suo
difensore  munito  di  procura speciale, secondo quanto gia' previsto
dall'art. 444   c.p.p.   e   confermato   nella  sua  riformulazione;
altrettanto  non  fa  il  secondo  comma,  relativo alla richiesta di
sospensione,  onde  vale  la  regola  generale  sulla  rappresentanza
dell'imputato prima richiamata.
    Il  giudicante  dubita  della  legittimita'  costituzionale della
norma per contrasto con gli artt. 3 e 111 della Costituzione.
    Quanto  all'art. 3,  ed in ispecie al principio di ragionevolezza
che    per   consolidatissima   elaborazione   della   giurisprudenza
costituzionale da esso viene dedotto, la norma non appare ragionevole
a)  perche' consente di formulare la richiesta anche oltre il termine
fissato  dall'art. 446,  primo  comma c.p.p.; quanto all'art. 111, il
contrasto   sussiste   b)  perche'  la  norma  impone,  su  richiesta
dell'imputato,  una sospensione di quarantacinque giorni, fissando il
termine  di decorrenza dalla prima udienza utile successiva alla data
di pubblicazione della legge.
    Sub-a).  Il  cosiddetto  patteggiamento  e'  stato introdotto nel
codice  di  rito  vigente  per  determinare un effetto deflattivo del
processo  penale: si e' concesso alle parti di concordare la pena per
evitare  i  costi in termini di tempo, di risorse umane e finanziarie
che  il  rito  ordinario  comporta;  in  cambio  di  tale  risparmio,
l'imputato gode di uno sconto di un terzo della pena.
    La  finalita'  indicata  e'  stata  ribadita  anche  dalla  Corte
costituzionale  con  la  sentenza n. 129 del 1993, in cui si afferma,
con  riferimento  ai  riti speciali, che «l'interesse dell'imputato a
beneficiare  dei vantaggi conseguenti a tali giudizi in tanto rileva,
in   quanto   egli   rinunzia   al   dibattimento   e  venga  percio'
effettivamente  adottata  una sequenza procedimentale che consenta di
raggiungere  l'obiettivo  di  una  rapida  definizione  del  processo
deducendone la legittimita' costituzionale della preclusione dei riti
speciali  in  caso  di  contestazione  suppletiva.  Se  questa  e' la
finalita'  dell'applicazione  della  pena,  lo  sbarramento  previsto
dall'art. 446,  primo  comma  e'  necessario  per  garantire  che  la
finalita'  venga  nel  concreto  perseguita.  La novella opera, per i
processi  in corso al momento della sua entrata in vigore, una scelta
del  tutto contraria: consente infatti il ricorso al rito speciale in
ogni   momento,   perfino  quando  sia  stato  dichiarato  chiuso  il
dibattimento  e  ci  si  trovi gia' in fase di discussione. Consente,
cioe',  la  riduzione della pena anche a chi non ha fatto risparmiare
alcuna  risorsa  allo  Stato, e cio' appare irragionevole e contrasta
con  le  finalita' del rito speciale, cioe' la rapida definizione del
singolo  processo  e l'efficienza complessiva del sistema giudiziario
penale, oggi costituzionalmente valorizzate dall'art. 111 Cost.
    Sub-b)  La  sospensione  per  quarantacinque  giorni del processo
contrasta, ad avviso del giudicante, con l'art. 111 appena richiamato
oltre  che sotto diverso profilo, con l'art. 3 Cost. Il contrasto con
il  principio  della ragionevole durata del processo appare chiaro se
si  da'  della  riformata  norma costituzionale una lettura che abbia
riguardo  non solo all'interesse di ogni singolo imputato, ma anche a
quello  di  tutte  le  altre  parti  processuali,  dello  Stato e dei
cittadini  in  generale.  Infatti,  se  la  speditezza processuale si
intendesse come forma di tutela del singolo imputato, la richiesta di
rito   alternativo   avanzata   nel  corso  di  un  processo  in  cui
l'istruttoria  dibattimentale  sia  iniziata o addirittura terminata,
non  incontrerebbe  ostacoli  nell'art. 111 Cost., dal momento che il
singolo  imputato,  a  seconda  dei casi, ha interesse ad un processo
piu'  lungo  nella speranza della prescrizione del reato, oppure piu'
breve, attraverso riti alternativi, quando la prescrizione sia ancora
lontana.  Si  ritiene, invece, piu' fondata una lettura del principio
della  ragionevole  durata  del  processo  quale garanzia dell'intera
collettivita', sulla scorta delle considerazioni che seguono.
    In  primo  luogo  si  osserva  che la regola di cui si discute e'
contenuta  nel  secondo  comma  dell'art. 111,  relativo  a  tutti  i
processi,  non solo a quello penale. Cio' evidenzia in maniera chiara
che  il  principio  non  puo' essere inteso solo come funzionale agli
interessi  di  una  sola  delle  parti  di  uno solo dei vari tipi di
processo  che  il nostro ordinamento prevede. Sono i commi successivi
della  norma che si occupano specificamente del processo penale e che
prevedono  garanzie  dell'imputato, nessuna delle quali, tuttavia, e'
delineata  in  maniera  tale  da  derogare  apertamente  alla  regola
generale  della  ragionevole  durata.  Unica  di tali garanzie che in
qualche modo s'interseca con il principio generale e' quella inerente
il  diritto  dell'imputato  a  disporre  del tempo e delle condizioni
necessarie a preparare la sua difesa, che tuttavia riguarda il merito
dell'accusa, non la semplice strategia processuale, e sarebbe percio'
richiamata  a  sproposito  nella  materia  di  cui si sta discutendo,
soprattutto  quando il punto di scontro fra le due esigenze si situa,
come avviene applicando la norma transitoria, a dibattimento iniziato
o  perfino  concluso,  cioe' in un momento in cui l'imputato ha ormai
impostato od anche attuato la sua linea difensiva.
    L'interpretazione  dell'art.  111  Cost. che collega il principio
della ragionevole durata non ai contingei interessi dell'imputato, ma
a  quello  della  collettivita',  si  avvalora  poi  alla  luce della
produzione legislativa che ha fatto seguito alla modifica della norma
costituzionale.  Si  consideri  che la legge 24 marzo 2001 n. 89, che
consente  alle  parti un'equa riparazione allorche' il processo abbia
avuto  una  durata  eccessiva,  indipendentemente  dalle  ragioni che
l'abbiano  determinata,  attribuisce  il diritto all'equa riparazione
non  solo all'imputato, ma anche alla parte civile. Da cio' si evince
che  la ragionevole durata del processo penale non e' un diritto solo
dell'imputato,  ma  anche delle altre parti processuali, ivi compresa
la parte civile, il che costituisce chiaro indice della sua natura di
principio generale, non di forma di tutela di una parte.
    Se   poi  si  ha  riguardo  agli  effetti  concreti  della  norma
denunciata  nello  svolgimento  dei processi, l'implausibilita' della
lettura  del  principio della ragionevole durata come tutela del solo
imputato,  da  questi  disponibile  e rinunciabile discrezionalmente,
risulta  ancor  piu'  chiara. Si consideri che nell'attuale sistema i
poteri  istruttori,  e  conseguentemente quelli decisori, del giudice
sono  stati  ampiamente ridotti in favore di quelli delle parti. Ogni
volta   che   sia   disposta   la   rinnovazione   del  dibattimento,
l'istruttoria  dibattimentale  deve  ricominciare  da capo, salvo nel
caso  in cui le parti prestino il consenso alla lettura degli atti in
precedenza  svolti.  Percio', se il processo ha piu' imputati, di cui
solo  uno  chieda la sospensione, ai sensi dell'art. 5, comma 2 della
legge  134  citata,  il  giudice  deve,  innanzitutto,  stabilire  se
proseguire  il  giudizio nei confronti dei coimputati, stralciando la
posizione  del richiedente - opzione che sembra la piu' corretta alla
luce  dell'attuale formulazione dell'art. 18, lett. b) c.p.p., ma che
puo'   rivelarsi   inutile,   se   il   rito  alternativo  non  viene
concretamente  richiesto,  con  dispendio  di  energie e di attivita'
processuali  -;  oppure se, anziche' sospendere il processo anche nel
confronti  dei  coimputati,  rinviarlo  in  attesa  del  decorso  dei
quarantacinque   giorni   prescritti.   In   quest'ultimo   caso,  se
l'interessato  poi  chiede  l'applicazione della pena, l'accoglimento
dell'istanza  rende  il  giudice  incompatibile a giudicare gli altri
coimputati,  mentre  il  rigetto  della richiesta lo rende ugualmente
incompatibile a giudicare l'imputato: se non si procede allo stralcio
gia'  al momento della richiesta di sospensione, quindi, il processo,
per  la  parte  che  prosegue  con  rito ordinario, deve in ogni caso
iniziare   ex   novo  innanzi  ad  altro  giudice,  con  rinnovazione
dell'istruttoria   dibattimentale.   In   tale  ipotesi,  non  vi  e'
speditezza  processuale  ne'  per l'interessato ne' per i coimputati,
ma,  al contrario, una dilatazione dei tempi della decisione. La cosa
e' particolarmente evidente quando l'istruttoria e' gia' esaurita: ad
una   decisione   con  rito  ordinario  ormai  certa  nel  tempo,  si
sostituisce  un'attivita'  interlocutoria di sospensione che potrebbe
concludersi con il rigetto della richiesta di applicazione della pena
e  con  la  necessita'  di  iniziare  nuovamente il processo con rito
ordinario,  in  caso  di  unico  imputato;  oppure,  se  vi sono piu'
imputati  ed  uno  solo  chiede  il rito alternativo, con lo stralcio
delle  posizioni  degli eventuali coimputati, per i quali il processo
ricomincerebbe, anche se fosse ormai conclusa l'istruttoria.
    Il  giudicante  non  ignora  che  la  Corte  costituzionale,  con
sentenza n. 266 del 1992, ha affermato che «l'applicazione della pena
concordata  con  il  pubblico ministero da uno solo degli imputati di
concorso  nel  medesimo  reato costituisce un procedimento congegnato
come pattuizione tra imputato richiedente e parte pubblica, in ordine
al  quale  e'  previsto  un controllo giurisdizionale che non include
pero'  la  valutazione  delle posizioni dei coimputati. La questione,
tuttavia,  era  stata esaminata solo con riferimento all'art. 3 Cost.
ed   inoltre  era  relativa  ad  una  disposizione  ordinaria  e  non
all'introduzione   di   una   norma  transitoria,  come  quella  oggi
denunciata,  che  mira ad applicare l'istituto a tutti i procedimenti
in  corso,  anche  se  in  fase  dibattimentale,  sicche' quella oggi
sollevata  e'  questione  nuova e diversa. Inoltre la sentenza citata
era antecedente alla riforma dell'art. 111 Cost.
    Sempre  in  punto  di  effetti concreti delle norme impugnate, si
osserva, ancora, che, nel caso di applicazione della pena in corso di
giudizio,  l'esercizio  del  diritto  di  azione  della  parte civile
costituita,   garantito   dall'art.   24   Cost.,   viene   oltremodo
sacrificato,  giacche'  tutta  l'attivita'  processuale  fino  a quel
momento  svolta  si  vanifica  nel  merito  e  puo' portare solo alla
condanna  alle  spese,  in forza della sentenza n. 443 del 1990 della
Corte  costituzionale.  E  se  e'  vero che il giudice delle leggi ha
risolto   nel   limitato   senso   indicato   il   problema  relativo
all'esclusione della parte civile nel rito de quo, e' anche vero che,
di   nuovo,   la  decisione  si  riferiva  al  sistema  ordinario  di
applicazione  della  pena e non ad una norma transitoria, come quella
in  esame,  che interviene a disciplinare un giudizio in corso in cui
la  parte civile sta gia' esercitando o addirittura ha gia' del tutto
esercitato  il  proprio  diritto  di azione. Sicche' anche sotto tale
aspetto  la  frustrazione  dei  diritti  della  parte  civile e della
ragionevole  durata  -  anche  per essa - del processo finisce con il
violare   i  principi  di  ragionevolezza  e  di  ragionevole  durata
stabiliti dagli artt. 3 e 111 Cost.
    Sia in astratto che in concreto, percio', una norma, quale quella
di  cui  si  discute,  che  consente  all'imputato  di dilazionare ad
libitum  per  ben  quarantacinque  giorni  il  giudizio  senza alcuna
conseguenza negativa in caso di mancato ricorso al patteggiamento, ad
avviso  del  giudicante  stride  in maniera evidente con il principio
della   ragionevole   durata   del   processo  letto  come  interesse
dell'intera collettivita'.
    Il  contrasto  appare poi ancor piu' chiaro, e risulta assai poco
ragionevole  la  disciplina  della  novella, con ulteriore violazione
dell'art.  3  Cost.,  in  relazione  alla  decorrenza del termine per
richiedere  la  sospensione  del  processo dalla prima udienza utile,
anziche'  dalla  pubblicazione  della  legge.  Sotto  tale profilo si
osserva che ogni cittadino e' tenuto a conoscere le leggi pubblicate.
Pertanto ogni imputato e' stato posto in grado, nel momento in cui la
legge  in  esame  e'  stata pubblicata, di valutare l'opportunita' di
avvalersi  della pena concordata, tanto piu' se si considera che ogni
imputato  e'  assistito  da  un  difensore,  sicche' ha avuto modo di
consultarsi con questi per valutare l'opportunita' di avvalersi della
novella.  La concessione di un termine di durata notevole, decorrente
dalla  prima  udienza  anziche'  dalla  vigenza  della  legge, appare
irragionevole.   Tale  irragionevolezza  risulta  di  tutta  evidenza
allorche'  la  fase  istruttoria  sia  esaurita  o  il  processo  sia
addirittura  in  fase  di  discussione,  e,  quindi, l'imputato abbia
potuto  valutare tutto il materiale probatorio e rendersi conto della
convenienza  eventuale di concordare la pena. Una volta accertato che
il  rapporto  esistente tra imputato e difensore consente ad entrambi
di valutare momento per momento le opportunita' di scelte processuali
e  che,  dunque, non v'e' lesione del diritto di difesa se si dispone
che l'imputato, alla prima udienza utile, debba dichiarare se intende
patteggiare  o no, anziche' chiedere un lungo termine di riflessione,
deve  ritenersi  che la sospensione obbligatoria incida - si passi il
bisticcio  - irragionevolmente sulla ragionevole durata del processo.
Nel   bilanciamento   tra  l'interesse  dell'imputato  e  l'interesse
generale  alla ragionevole durata del processo sembra debba prevalere
quest'ultimo, non indiscriminatamente il primo.
    Ancora,  lo  spatium  deliberandi  obbligatorio  appare  istituto
nuovo, quantomeno nell'ambito del processo penale, e contrastante con
le soluzioni adottate anche di recente dal legislatore: si consideri,
ad  esempio, che la legge 25 giugno 1999 n. 205, che ha introdotto la
procedibilita'  a  querela  per  il  reato di furto, nella disciplina
transitoria  dell'esercizio  del  diritto  di  querela  per  i  reati
commessi  prima  dell'entrata  in  vigore  della legge stessa, di cui
all'art.   19,   non  prevedeva,  per  i  processi  pendenti,  alcuna
sospensione  automatica  del  processo  per  un  tempo  necessario  a
decidere  se  proporre  querela,  ma  solo un obbligo di informazione
della  persona  offesa circa la facolta' di esercitare tale diritto e
la decorrenza del termine di cui all'art. 124 c.p. dal momento in cui
veniva  ricevuta  l'informazione  che,  se l'interessato era presente
all'udienza,  si  identificava  con  l'udienza stessa. Per i processi
relativi  a  fatti  anteriori  all'entrata  in vigore della legge, ma
iniziati  successivamente all'entrata in vigore stessa, la legge - in
coerenza  con  l'obbligo  di  conoscenza  delle norme - non prevedeva
invece  alcuna  informazione  ed  il  termine  per  proporre  querela
decorreva  dall'entrata  in  vigore  della  legge.  La  norma  che si
denuncia  ha  invece  operato  scelte  diverse  senza  alcuna ragione
apparente   o   cogente,  ma  -  sembra  di  capire  -  per  mero  ed
ingiustificato  favor  nei  confronti  degli  imputati anche di gravi
reati.
    In  punto  di  rilevanza si osserva innanzitutto che la richiesta
viene  proposta a termine di entrata in vigore della legge ampiamente
trascorso,  e  che  dunque il suo accoglimento dipende dall'esistenza
della norma di favore della cui dubbia costituzionalita' si e' appena
detto.  A  parte  cio'  il  giudicante  dovrebbe  oggi  sospendere il
processo  per  consentire  di  decidere se avvalersi della novella, e
cio'  comporterebbe  l'applicazione  diretta  al  caso portato al suo
esame  di  una  norma la cui costituzionalita' e' dubbia in generale,
essendo  quelle relative alle posizioni di altri soggetti processuali
solo  delle argomentazioni volte a dimostrare la portata generale del
principio della ragionevole durata del processo; applicazione, quella
della   norma   ritenuta   incostituzionale,  che  inciderebbe  sulla
ragionevole durata di questo processo.